Solo la mobilitazione nei territori potrà costruire l’uscita dal fossile e una società egualitaria, rispettosa delle persone e dell’ambiente
Ci risiamo. Periodicamente l’Italia è percorsa dalla febbre referendaria, con la quale ci si illude di poter porre all’attenzione generale questioni rilevanti e trovare soluzioni che rafforzino il processo democratico. Niente di più ingannevole. La storia dei referendum mostra come questo istituto sia un’arma spuntata, utile nel migliore dei casi a mimare una parvenza di partecipazione democratica, ma incapace di modificare i reali rapporti sociali e di forza. Se ciò può essere avvenuto in qualche occasione, a determinarlo sono stati fattori che solo marginalmente avevano a che fare con il referendum.
In linea generale l’istituto del referendum abrogativo in Italia soggiace a
condizionamenti istituzionali e politici che lo sovra determinano annullandone qualsiasi potenziale di cambiamento. Innanzitutto il referendum è appunto solo abrogativo, quindi si può solo cancellare una legge o parte di essa. In secondo luogo, cosa ancora più importante, l’ammissibilità di un quesito referendario è sottoposta al vaglio della giurisprudenza della Corte Costituzionale che pone vincoli, paletti, eccezioni che finiscono per ridurne la portata a questioni a volte assolutamente marginali. Lo stesso avviene sul piano politico, dove l’intervento del governo e del parlamento ne condizionano pesantemente rilevanza, svolgimento, prospettive.
Sotto questi aspetti il caso del referendum sull’acqua pubblica del 2011 è assolutamente emblematico. A quasi cinque anni di distanza quasi nulla è cambiato nella gestione dell’acqua. Le gestioni private o privatistiche
sono continuate. Nel frattempo governo e parlamento hanno ricollocato una serie di tasselli che riportano tutto all’anno zero.
Nel caso del referendum sulle trivellazioni, per il quale si voterà il 17 aprile prossimo, ad attivarsi sono stati nove consigli regionali che avevano proposto sei quesiti che volevano abrogare l’articolo 35 dell’ultimo Decreto sviluppo, parti dell’articolo 38 dello Sblocca Italia e l’articolo 6 comma 17 del Codice dell’Ambiente, in modo da mantenere il ruolo delle Regioni nella pianificazione delle ricerche di idrocarburi, definire senza ambiguità i titoli concessori e contenere il proliferare di nuove ricerche entro le 12 miglia dalla costa. A dicembre con la legge di stabilità il governo è intervenuto su questi argomenti rendendo vani cinque dei sei quesiti. Di conseguenza è rimasto in piedi un solo quesito, quello su cui si voterà, appunto, il 17 aprile e che riguarda la durata delle trivellazioni in atto entro le 12 miglia dalla costa. Se dovessero prevalere i sì, queste concessioni cesserebbero allo scadere del contratto,
mentre se dovessero prevalere i no le concessioni potrebbero essere rinnovate fino all’esaurimento del giacimento.
Come è chiaro si tratta di un referendum che tocca un aspetto assolutamente marginale della questione trivellazioni. Né gli altri quesiti bocciati per la verità entravano nel merito di una netta presa di posizione contro scelte energetiche che puntano sui combustibili fossili. In ogni caso l’intero pacchetto referendario lascia quasi inalterato il settore delle trivellazioni; ammesso che dovesse passare il sì per il referendum superstite, si continua e si continuerà a estrarre petrolio e gas dalle decine e decine di installazioni sparse per terra e per mare.
I sostenitori del referendum ritengono che l’importanza del voto derivi dall’impatto simbolico e politico che una vittoria del sì avrebbe. Ma dati
i precedenti, dato il clima politico prevalente in Italia, data la debolezza dei movimenti, di questo c’è molto da dubitare. La domanda che a questo punto dovremmo porci è perché si affida alla scorciatoia del referendum l’incarico di affrontare questioni così rilevanti e anche complesse. Il fatto è che i referendum scaturiscono spesso dalla volontà di un ceto politico o politicante che fa prevalere proprie esigenze di visibilità, di legittimazione e di controllo su percorsi autonomi di lotta dai quali potrebbe scaturire una partecipazione sempre più attiva e consapevole. Naturalmente è più facile e conveniente lanciare un referendum che impegnarsi nella costruzione di mobilitazioni territoriali. Tuttavia cessato il piccolo clamore mediatico suscitato dall’imminenza della scadenza referendaria, che fine faranno i problemi che continueranno a investire popolazioni e territori?
La scelta di ricorrere al referendum è in ogni caso rischiosa. Chiaramente il mancato raggiungimento del quorum, abbastanza probabile, sarebbe un bell’assist offerto al governo, ma anche l’auspicata vittoria del sì avrebbe un modesto impatto che verrà fagocitato da una situazione che rimane quasi inalterata e da scelte politiche arroganti e protese a tutelare interessi forti. Per non parlare, infine, del fatto che anche tra parecchi dei promotori del referendum continua a permanere l’idea dell’uso del territorio a fini esclusivamente economici. Infatti la salvaguardia del territorio dalle trivelle è finalizzata all’implementazione, come si dice, di un turismo di qualità, in un’ottica di sviluppo e competizione. Il territorio viene comunque asservito alla creazione di profitto e forse occupazione. Per sfuggire a tali ambiguità e rompere con qualsiasi logica economicista e sviluppista non serve certo un referendum.
Federazione Anarchica Siciliana
marzo 2016